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“Mamma, quando vai ancora a “dabudabi”?”

Incontro qualche volta Luciana Malighetti il venerdì, con la casacca arancione del Piedibus che accompagna i bimbi a scuola. Ho fatto con lei il pendolare verso San Donato Milanese,  mi parla dei suoi viaggi all’estero se le chiedo di cosa si occupa. Mi racconta di Abu Dhabi, le chiedo di farmi un pezzo per UPper. Mi promette che lo farà ed eccolo qui, sembra lungo, ma la sua lettura è realmente affascinante.

Cosa centra col nostro paesello e la nostra valle? Noi di UPper crediamo sia importante il confronto tra culture diverse. Lo spaccato di mondo del racconto di Luciana è illuminante sul tema del lavoro, della sicurezza, della globalizzazione. La ringraziamo allora per l’articolo e le foto (scattate con il cellulare e di corsa, ci dice). Buona lettura.

 

Questa è diventata una frase ricorrente, sono qui per la quarta volta nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, Abu Dhabi, per lavoro, come sempre.

Mi ritengo una persona fortunata: ho potuto studiare e scegliere una professione che mi piace, ho anche potuto costruirmi una famiglia e ho tante persone, a partire dai miei familiari, che capiscono quanto sia bello e importante per me il mio lavoro e mi aiutano a portare avanti tutto questo. È come se ci fossero anche loro con me in ufficio, in trasferta, in cantiere.

Torniamo ad Abu Dhabi. È una città che mi affascina, piena di palazzi altissimi, alcuni nuovi, altri in costruzione, altri in demolizione, che verranno presto sostituiti da altri nuovi palazzi. C’è di tutto e di tutte le nazionalità, religione, usi e costumi. Mi trovo in un paese a maggioranza Islamica, dove i momenti della giornata sono scanditi dalla preghiera annunciata dai Muezzin dai minareti di tutte le moschee della città, che sono tantissime, anche se la maggior parte molto piccole.

Per cinque volte nell’arco delle ventiquattr’ore si sentono questi salmi e devo dire che personalmente mi piace, come da noi il suono delle campane.

Questo non costituisce un limite o un ostacolo alla pacifica convivenza delle persone; certo, sono necessari conoscenza e rispetto delle culture altrui: evito la minigonna o i top a spalle scoperte anche se ci sono 40 gradi, perché so che qui più che altrove può dare fastidio e io stessa mi sentirei a disagio se, come accade di continuo, mi trovassi a camminare accanto a donne vestite di nero da capo a piedi, o anche col burqa, anche se non sembra essere così diffuso. Molto più diffuso il tradizionale abito nero con il velo in testa; ce ne sono alcuni bellissimi, portati dalle signore chiaramente benestanti, impreziositi da ricami sul velo che scendono a richiamare con lo stesso motivo le maniche e l’orlo.

Gli uomini arabi invece sono solitamente vestiti con una tunica bianca (che più bianco non si può), in testa hanno una specie di foulard anch’esso bianco, che portano steso e tenuto fermo da una corda nera a doppio giro.

Gli Emirati Arabi Uniti (che sono sette) hanno festeggiato lo scorso novembre il 41esimo anniversario della loro costituzione, quando hanno cessato di essere un protettorato del Regno Unito. La loro festa nazionale è molto sentita, interi palazzi vengono illuminati con i colori della loro bandiera:

 

I volti degli Emiri alla guida del paese (Il presidente della federazione è lo sceicco di Abu Dhabi, emirato che ha il territorio più grande e quindi detiene la maggior parte delle risorse, mentre il vice presidente è lo sceicco di Dubai, secondo emirato in estensione, primo per popolazione) appaiono in tutti gli edifici pubblici e negli alberghi, e durante i festeggiamenti vengono proiettati in gigantografie sulle facciate dei palazzi.

La maggioranza della forza lavoro in questo paese è costituita comunque da stranieri: Indiani, Pakistani, Tailandesi, Filippini, Coreani, e le grandi società che vengono qui a costruire gli impianti e le infrastrutture necessarie al paese sono anch’esse straniere: Italiane, Americane, Indiane, Coreane, e così via.

Qualche problema in più di convivenza tra culture diverse si ha nei cantieri, dove la fatica e lo stress di dover portare a termine un progetto nei tempi previsti nonostante gli imprevisti che capitano di continuo, possono far salire la tensione anche tra connazionali, figuriamoci tra culture così diverse tra loro.

Sta nelle capacità di chi gestisce il cantiere, oltre che nell’intelligenza delle singole persone, stemperare questa tensione con momenti di convivialità, opportunità di svago ma anche di apprendimento di quanto importante sia anche il ruolo che sembrerebbe meno decisivo: si fanno tanti incontri sulla sicurezza, sulla qualità, sulle procedure, proprio per far passare più che nuove norme a cui attenersi, nuovi modi di comportamento e di relazione con gli altri, il concetto che si è responsabili della propria sicurezza e di quella altrui e che solo collaborando si possono dare garanzie e raggiungere i risultati.

Ieri e oggi sono in cantiere. Ieri sera prima di andare in mensa mi sono fermata a guardare alcuni colleghi indiani che hanno improvvisato nel cortile del campo una partita di cricket, antico gioco anglosassone simile al più recente e americanissimo baseball; è un modo per fare “team-building”, ovvero creare coesione tra colleghi che per un bel pezzo dovranno vivere e lavorare insieme, mentre le loro famiglie stanno nei paesi di origine. Tempo fa ci sono stati grandissimi festeggiamenti per il primo milione di ore lavorate senza incidenti.

In cantieri come questi, anche l’incidente più banale, può causare la morte di qualcuno, nonostante le norme di sicurezza siano molto restrittive e nonostante vengano rispettate. Se cade un martello da un’impalcatura, se un grosso camion o una ruspa fanno manovra e ci sono persone nei paraggi il pericolo è sempre in agguato: sono macchine enormi, se fanno un movimento è per spostare tonnellate di materiale, sono anche molto rumorose e quindi l’uomo alla guida può non accorgersi che ci sono altre persone attorno alla macchina, spetta a noi aver cura di essere sempre in posizione di sicurezza.

Di norma qui nei campi annessi ai cantieri (dove ci sono i conteiners per dormire la notte, chiamati baracche) non accettano donne, per fortuna il capocantiere mi ha potuto assegnare una baracca al momento libera e mi sono potuta fermare una notte, come ho fatto anche a novembre, così non ho perso ore di viaggio tra qui ed Abu Dhabi, ho potuto seguire tutte le attività per le quali sono venuta e ho avuto il tempo di vedere anche i lavori in corso, nel cantiere di costruzione vero e proprio; infatti di solito io sto nella parte uffici di cantiere, dove si fa progettazione, dove ci sono i laboratori di analisi e si fanno i test sui materiali, non vado al cantiere di costruzione vero e proprio dove si realizzano le opere.

In questo caso invece, dopo aver indossato la necessaria dotazione antinfortunistica e aver ricevuto l’”Induction”, che consiste in un corso base sulla sicurezza, mirato sugli aspetti particolari di questo progetto, obbligatorio per chiunque voglia accedere alle aree di costruzione, ci siamo andati, io, il direttore lavori (indiano) e il referente informatico al cantiere, mio collaboratore, anch’esso indiano, infatti tra loro parlavano in Urdu, una delle tante lingue parlate in India, invece con me in Inglese.

Ho dimenticato di dire in cosa consiste il progetto per il quale seguo la parte informatica: stiamo costruendo la prima ferrovia degli UAE.

La tratta che realizziamo in questo progetto è lunga 265 km, si estende lungo la costa che parte da Ruwais fino quasi ad Abu Dhabi, poi piega decisa nell’entroterra, verso il confine con l’Arabia Saudita.

Sono stata anche negli uffici di altri due cantieri che abbiamo aperto lungo quest’ultima parte del percorso, e ho notato che man mano che ci si allontana dalla costa cambia il colore della sabbia, che inizialmente è bianca, poi diventa sempre più gialla e arancione, quando si arriva a Mezaira’a e Shah, vicino al confine, il paesaggio è da mille e una notte: dune altissime (80 metri di norma) di sabbia rossa, ocra, gialla.
Sabbia, cammelli (per la precisione dromedari), e poco altro, palme da datteri, segno di oasi.

Non credo sia facile vivere qui, ma capisco che chi lo fa ama profondamente il deserto, in tutti i suoi aspetti, e lo rispetta. Così come da noi chi vive in alta montagna ne rispetta la natura, anche quando è molto dura. Sono molto contenta di poter avere queste occasioni di confronto con altre culture, speriamo si possa un giorno farlo tutti senza problemi di divisioni, conflitti, con rispetto reciproco e in pace.

4 pensieri su ““Mamma, quando vai ancora a “dabudabi”?””

  1. Condivido appieno i complimenti che ti fa meritatamente Luciana Pagnin.
    Non conoscevo i particolari della tua professione,ma lo spaccato che hai fatto per noi risulta certamente affascinante, sia per i viaggi che per gli incontri con altre culture che ti permette di fare.
    Raccontaci ancora in altre “puntate” le tue esperienze di lavoro, saremo tuoi fans!

  2. Grazie dei complimenti, Luciana, come hai ben detto tu se i figli possono cogliere certe opportunità è perché i genitori hanno insegnato loro, con l’esempio, a darsi da fare, hanno dato loro la possibilità di studiare, e soprattutto hanno lasciato che i figli costruissero la loro vita, scegliendo ciò che ritenevano giusto e mai anteponendo le proprie aspettative su di loro.

    Emilio, che occhio! è un piccolo dromedario, chissà, forse il suo nuovo padrone lo portava a casa.

  3. Complimenti Luciana, è molto bello vedere che i giovani del nostro paese vanno in capo al mondo, e ancorpiù una mamma speciale come te.
    Ritengo che l’importante sia stato avere dei bravi genitori,sempre presenti e fondamentali per la scuola e lo studio. Se da loro tu e Silvia avete tratto il meglio, le tue bimbe hanno spazi illimitati
    davanti a loro e tra qualche anno potremmo leggere ancora articoli molto interessanti di esperienze di lavoro come hai saputo raccontarcitu, e inviarci le foto di dune di sabbia alte come le colline del nostro paese.
    In attesa di leggere altri articoli dei tuoi viaggi molto interessanti ti giungano i miei più cari saluti.
    Luciana Pagnin

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