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Intervista a Enrica Femia per il 25 Aprile 2015

Alla vigilia dei 70 anni dalla Liberazione del nazifascismo, abbiamo voluto ascoltare la voce di una nostra amica e concittadina di Monte Marenzo, Enrica Femia, una testimone di quella pagina di storia, che ha partecipato giovanissima alla Resistenza.

L’abbiamo incontrata a casa sua con l’intenzione di registrare una video-intervista, ma Enrica, da sempre schiva e riservata, ha preferito conversare con noi e rispondere alle nostre domande.

Quel che segue è la trascrizione di questa conversazione che dà voce ad una testimonianza straordinaria e commovente, oltre che essere un insegnamento prezioso per le giovani generazioni e per noi tutti.

Ringraziamo Enrica per la sua disponibilità e per averci consentito di riprodurre le foto che corredano l’intervista.

Quest’anno cade il 70° anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Enrica, tu dove eri il 25 Aprile del 1945? Quanti anni avevi? Come hai vissuto quel giorno?

Avevo 17 anni. Vivevo ad Omegna (Lago d’Orta, in Piemonte) e il 25 aprile del 1945 ero in piazza. Una piazza strapiena, esultante e festosa come non avevo mai visto.

Quando e perché hai scelto di stare con la Resistenza?

Provenivo da una famiglia antifascista. I miei due fratelli, ventenni, erano disoccupati perché non avevano mai accettato la tessera del fascio. Erano antifascisti convinti perché non tolleravano i soprusi della dittatura.

Avevi qualche compito, o ruolo?

Con molte altre donne si faceva di tutto per aiutare i ragazzi in montagna. Dall’approvvigionamento dei viveri, ai collegamenti, a tutte le attività necessarie per sostenere la lotta contro gli invasori, ma anche contro un regime interno: il fascismo. La mia brigata si chiamava 10^ Brigata Rocco ed era legata alle formazioni Garibaldine.

In quale ambito operavi? Eri in clandestinità, o conducevi anche una vita normale nella tua famiglia?

Nella resistenza ognuno dava il proprio contributo secondo le proprie possibilità. Io lavoravo in fabbrica e questo mi permetteva quella mobilità sul territorio necessaria per le attività di cui dicevo prima.

Chi erano i tuoi referenti nella Resistenza e come eravate organizzati?

Le nostre formazioni non differivano da tutte le altre formazioni partigiane. Vi era una gerarchia di comando e una struttura di base divisa in formazioni, necessaria per tutelare l’organizzazione e i singoli individui. Se uno o più componenti di una formazione cadevano in mano nazifascista, le altre continuavano ad operare. L’organizzazione era ovviamente clandestina e agiva come un corpo militare, molti partigiani avevano nomi di battaglia. Era indispensabile: si era in guerra…

Ricordi qualche momento in cui avvertisti che il tuo impegno era utile alla lotta antifascista? Nel contesto nel quale operavate avvertivate la solidarietà della gente e come si manifestava?

Omegna vedeva la presenza di una grande acciaieria e di un tessuto di medie e piccole industrie. La popolazione era quindi prevalentemente operaia e non contadina.

La povertà e la fame hanno caratterizzato la zona negli anni di guerra, soprattutto nei due anni dal 1943 al ’45, a causa della presenza in tutta la Val d’Ossola e nelle valli limitrofe dei tedeschi, che chiudevano il passaggio agli approvvigionamenti per la popolazione.

Malgrado questo però vi era una forte organizzazione antifascista e la popolazione era fortemente solidale con coloro che combattevano la dittatura.

Passavo di casa in casa, dalle donne, per raccogliere un pugno di riso per sostenere gli uomini che in montagna combattevano. Guardavo in faccia quelle persone e vedevo visi smagriti e stanchi.

L’umanità e la solidarietà che quella gente affamata e carica di paure manifestava verso i resistenti, mi hanno insegnato che alla base di tutto ci deve essere la capacità di vivere con gli altri, aiutandosi a vicenda: sempre!

Mi hai raccontato una volta che hai rischiato di essere deportata in Germania. Penso che siano episodi che segnano profondamente le persone. Quando avvenne e cosa accadde?

Mi è capitato di essere arrestata dai fascisti e portata nella loro sede.

In quella occasione il tenente fascista mi sottopose ad interrogatorio, chiedendomi come si comportavano gli operai della ditta in cui lavoravo e se potevo segnalare la presenza di partigiani nella città.

Ovviamente “io non sapevo niente” e “non capivo cosa voleva da me”.

Al termine mi disse di aspettare nella stanza una loro decisione ma che, molto probabilmente, l’indomani sarei stata consegnata ai nazisti e inviata in Germania. Le ultime parole prima di lasciarmi sola furono: “…questa notte la passerai qui in compagnia dei commilitoni della caserma fascista”.

Mentre aspettavo, fortuna volle che potei andare sul balcone che dava sulla via principale del paese. Non nascondo che il mio pensiero era tra salvarmi la vita ad un prezzo intollerabile o farla finita buttandomi dal balcone. In quel momento passò per la strada mio fratello Guido, che vedendomi, con un segno della mano, mi chiese cosa stavo facendo in quella sede. Io, sempre a gesti, gli comunicai la mia situazione di prigionia. Senza perdere un istante partì di corsa per non so dove. Dopo poco capii.

Vidi arrivare in bicicletta, a velocità folle pedalando come un forsennato, Don Giuseppe Annichini, parroco di Omegna. Gettata la bicicletta per terra entrò nel portone della caserma fascista. Era una figura sempre presente nei fatti cittadini e si prestava a fare da intermediario tra popolazione, fascisti e tedeschi. Una bella figura.

Magro, ciclista, sempre in movimento verso e per la gente. Dopo 70 anni ancora lo rivedo. Oggi Don Giuseppe di Monte Marenzo me lo ricorda in molti aspetti.

La fine della storia fu che venni rilasciata con l’avvertenza che, da quel momento, sarei stata una vigilata speciale. La prossima volta non sarebbe finita bene.

Capisco che non hai mai perso la speranza di farcela ed eravate certi che, presto o tardi, il nazifascismo sarebbe stato sconfitto. Quali furono gli insegnamenti dei tuoi compagni partigiani?

Nei fatti e nelle parole mi insegnarono la dignità, la solidarietà e il coraggio di affrontare in prima persona le cose della vita.

Ma l’insegnamento più profondo nacque dalle continue discussioni, nei momenti di ritrovo e di pausa, quando si ragionava sul “dopo”, dopo la fine della guerra. Con la sconfitta dei tedeschi e dei fascisti dovevamo prendere in mano il nostro futuro, dovevamo studiare e “far studiare” per costruire una società più giusta e più democratica.

Infatti, il 25 luglio del 1945, con cinque partigiani della mia brigata con “Peter” e “Nicola”, che era il nostro commissario politico, partimmo per Milano ed a Affori, in un convento abbandonato, fondammo la scuola “Ex Partigiani”.

Arrivarono partigiani da tutta Italia per studiare. Arrivarono anche i reduci dai campi di concentramento e di lavoro tedeschi. Anche loro volevano ricominciare da dove la loro gioventù si era spezzata.

Tra questi giunse anche Franco Chiari [Franco è stato assessore del comune di Monte Marenzo negli anni ’90, N.d.R]. Rientrava dalla Germania dopo due anni di prigionia. Era uno dei tanti internati utilizzati come schiavi nelle miniere, nei campi e nelle industrie. E quando dico schiavi non scherzo: erano costretti a lavori pericolosi e defaticanti e ricevevano razioni di cibo minime. Franco era stato fatto prigioniero a 22 anni, durante il servizio militare. Alto circa 1 metro e 80 all’inizio della prigionia pesava 84 chili, al rientro in Italia il suo peso era circa 60 chili.

Anche lui però voleva lasciarsi alle spalle quella brutta esperienza e considerava l’opportunità di questa scuola non solo come momento di crescita personale, ma anche e soprattutto come un progetto culturale e politico collettivo.

Lì ci siamo conosciuti e lì è nata la nostra relazione. Ma questa è un’altra storia…

Studiare e partecipare alla ricostruzione di una nuova società: questa era la parola d’ordine. Dopo Milano sorsero altri Convitti scuola della resistenza, circa una decina in tutta Italia. Tutti con le stesse finalità. Gli studenti e gli insegnanti credevano in questa esperienza sociale e politica.

La scuola di Milano esiste ancora, in via Anemoni. È una scuola sperimentale, con criteri e metodi moderni che tenta di salvaguardare i valori di allora. Così come esiste ed è attivo l’Istituto Pedagogico della Resistenza. Coniugare il termine “resistenza”, che vale in qualsiasi epoca dell’umanità, e pedagogia, è fondamentale per la crescita di generazioni non passive, ma protagoniste.

Le aspettative della vostra lotta, i vostri sogni, si sono tramutati in realtà?

Oggi non posso dire che la nostra lotta, i nostri sogni, si siano tramutati in realtà.  Ma posso affermare che la lotta partigiana ha ridato dignità e orgoglio ad un popolo. Un popolo che è stato costretto a subire anche la vergogna delle leggi razziali verso ebrei, rom, omosessuali e i vari “diversi”.

Il nostro impegno ha messo le basi per la nascita di una democrazia, che nonostante non sia pienamente compiuta, ci ha permesso in questi ultimi 70 anni di vivere in un Paese che tutela la libertà degli individui, benché non si sia ancora realizzata quell’uguaglianza tra diversi che noi sognavamo.

Cosa della tua storia, della forte esperienza che hai vissuto da giovanissima, vorresti fosse colta dai ragazzi di oggi?

Ai ragazzi di oggi direi questo.

Cancellate dai vostri libri e dalla vostra mente la parola guerra. La parola guerra è la più brutta parola che abbiamo nei vocabolari delle lingue di tutto il mondo.

Leggete la storia e imparate dagli errori e dagli orrori compiuti, affinché non abbiano più a ripetersi.

Ai ragazzi direi di studiare. Abbiamo bisogno di cultura e di conoscenza, per evitare nel futuro di commettere tanti disastri verso l’umanità e la natura intera, come si sta facendo purtroppo in questi tempi.

Ai ragazzi direi di aprirsi agli altri, di guardare le persone negli occhi, di guardare tutte le persone, anche se diverse, per imparare che non esistono “razze”, ma esistono gli “uomini”.

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Enrica Femia (a sinistra) al Convitto scuola della Rinascita di Affori (MI)

 

2 pensieri su “Intervista a Enrica Femia per il 25 Aprile 2015”

  1. Grazie Enrica, per la tua testimonianza e le tue parole per i nostri giorni e per quelli a venire.

    Come diventa più concreta, più vicina, attraverso i ritratti delle persone (indimenticabile il tuo Don Giuseppe con la bici!) e anche più attuale, questa ‘celebrazione’ di un aprile lontano ormai settanta anni fa.

    E’ vero, la democrazia è ancora tanto imperfetta (siamo, imperfetti), si fa comunque fatica, ma qualcosa del vostro sogno di allora, noi, nati dopo la guerra, lo abbiamo vissuto, ci è stato dato di viverlo: qualcosa di molto semplice e di molto importante, che dobbiamo alla vostra “generosa giovinezza”, alla vostra caparbietà e voglia di sapere.

    Grazie per la libertà, vorrei sommessamente dire alle due giovani ragazze dell’agosto del ’45: ma non voglio distrarle, così intente al loro lavoro, per noi, tra tutti quei libri…

    un abbraccio

    Cristina

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