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Una riflessione per questa estate e oltre

Riceviamo e pubblichiamo una mail di Graziano Morganti che ci propone “una riflessione per questa estate e oltre”.

 

Finalmente, speriamo non troppo tardi, dagli USA si alza una voce, quella di Obama che propone di ridurre l’inquinamento dell’atmosfera.

  1. Questa civiltà del petrolio purtroppo ci ha portato sull’orlo del baratro. L’anidride carbonica non è una conseguenza sfortunata dell’industria. Essa è il prodotto finale di questa industria.
  2. Abbiamo in Italia numerose città tra le più belle al mondo che “naufragano” nei rifiuti. Poche metropoli al mondo non sono in queste condizioni. Forse hanno esportato il problema. Non è stato risolto …è solo stato rimandato accumulando miseria, rifiuti, inquinamento in qualche altra parte del mondo ma la montagna è molto alta e dà già segni di instabilità…
  3. I “migranti” arrivano sempre più numerosi sulle sponde di un Europa incapace di trovare, non dico una soluzione, ma almeno una strada, una voglia, comune per guardare con responsabilità al futuro e preparare risposte serie quali il problema richiede.

Tutto questo ha un’origine precisa. Nasce da come intendiamo il rapporto tra società e natura intesi come genere umano e il pianeta che lo ospita.

Ve lo dimostro con le parole di James P. Carse (https://en.wikipedia.org/wiki/James_P._Carse ), tratta dal suo illuminato libro “Giochi finiti e infiniti”.

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Poiché le macchine esigono un apporto di potenza dall’esterno, il loro uso richiede sempre una ricerca di energia consumabile. Quando pensiamo alla natura come una risorsa, essa è una risorsa di energia. Quando ci preoccupiamo di macchine, pensiamo sempre più alla natura come a un serbatoio di sostanze di cui abbiamo bisogno. Essa è una quantità di sostanze che esistono per essere consumate, principalmente nelle nostre macchine.

Essendo indivisa, la natura non può essere usata contro se stessa. Noi perciò non la consumiamo, né la esauriamo. Noi semplicemente riorganizziamo i nostri modelli sociali in un modo che riduce la nostra capacità di rispondere in modo creativo ai modelli di spontaneità esistenti. In altri termini, per usare l’espressione delle scienze sociali, creiamo rifiuti. I rifiuti, ovviamente, non sono affatto innaturali. Le immondizie di una civiltà non contaminano la natura; essi sono natura: ma in una forma che la società non è più in grado di sfruttare ai propri fini.

La società considera i suoi rifiuti una conseguenza sfortunata, ma necessaria, delle sue attività: ciò che rimane quando abbiano reso disponibili beni sociali essenziali. Ma i rifiuti non sono il risultato di ciò che abbiamo prodotto. Sono ciò che abbiamo prodotto. Le scorie di plutonio non sono una conseguenza dell’industria nucleare; sono un prodotto di quell’industria.

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I rifiuti sono rivelatori. Quando ci troviamo immersi in una massa di rifiuti che sappiamo essere nostri rifiuti, troviamo anche che quelli sono i rifiuti che abbiamo scelto di produrre, e ci rendiamo conto che, avendo scelto di produrli, avremmo potuto scegliere di non produrli. Poiché i rifiuti sono rivelatori, noi li eliminiamo. Li mettiamo in luoghi dove non possiamo vederli. Troviamo o aree disabitate, dove potercene liberare, o riempiamo a tal punto certe aree con i nostri rifiuti fino a renderle inabitabili. Poiché una società prospera sfrutterà vigorosamente le sue risorse naturali, essa produrrà quantità corrispondentemente grandi di rifiuti, e ben presto le sue aree disabitate saranno sommerse da immondizie, minacciando di trasformare in un immondezzaio anche le aree abitate dalla società.

Poiché i rifiuti sono rivelatori, non solo vengono nascosti fuori della vista, ma vengono dichiarati una sorta di antiproprietà. I rifiuti non sono di nessuno. Una parte della contraddizione nel fenomeno dei rifiuti consiste nel fatto che, trattando la natura come se ci appartenesse, ci troviamo ben presto costretti a trattarla come se non appartenesse a nessuno. Non solo nessuno possiede i propri rifiuti, ma nessuno li vuole. Anziché competere per il possesso di questi particolari prodotti, competiamo per espropriarcene. Li imponiamo ad altri, meno abili a liberarsene. I rifiuti si accumulano in slum, le acque di scolo vengono scaricate in fiumi, gas acidi liberati nell’atmosfera vanno a ricadere, a centinaia di chilometri di distanza, sulle terre di popolazioni impotenti a impedire la loro «eliminazione» nell’atmosfera. Migliaia di chilometri quadrati di terreni agricoli sono stati devastati dalla costruzione di autostrade a molte corsie, o sommersi da dighe le cui acque vengono usate per trasportare via i rifiuti da città lontane.

I rifiuti sono l’antiproprietà che diventa il possesso dei perdenti. Essi sono l’emblema dei non titolati.

I rifiuti sono rivelatori perché persistono nel mostrarsi come rifiuti, e come nostri rifiuti. Se i rifiuti sono il risultato della nostra indifferenza alla natura, sono anche il modo in cui sperimentiamo l’indifferenza della natura. I rifiuti ci ricordano perciò che la società è una specie di cultura. Guardando quell’immondezzaio in cui abbiamo trasformato il luogo in cui abitiamo, possiamo vedere senza difficoltà che la natura non è qualsiasi cosa noi vogliamo che sia; ma possiamo anche vedere facilmente che la società è solo ciò che vogliamo che sia.

Una conseguenza di questa contraddizione è che, quanti più rifiuti una società produce, tanto più tali rifiuti sono rivelatori, e quindi, quanto più vigorosamente una società nega di produrre alcun rifiuto, tanto più deve eliminare, o nascondere, o ignorare i suoi rifiuti.

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Poiché il tentativo di controllare la natura è nella sua essenza il tentativo di controllare altre persone, possiamo attenderci che le società siano meno pazienti con quelle culture che esprimono un qualche grado di indifferenza a fini e valori sociali. È questo parallelo ripetuto che ci porta a vedere che la società che crea rifiuti naturali crea rifiuti umani.

I rifiuti umani sono coloro che, per qualsiasi ragione, non sono più utili come risorse a una società e sono diventati apolidi, o non-cittadini. I rifiuti umani devono essere sottratti alla vista: in ghetti, slum, riserve, campi, villaggi isolati, sepolture collettive, territori remoti, borgate strategiche, altrettanti luoghi di desolazione, inabitabili. Noi viviamo in un secolo i cui grandi maestri hanno creato molti milioni di tali «persone superflue» (Rubenstein).

Una persona non diventa superflua di per sé, cosi come non è un rifiuto naturale a creare se stesso. È la società a dichiarare che alcune persone sono rifiuti. I rifiuti umani non sono un onere che la società si trova a sopportare per sfortuna, una conseguenza indiretta di un funzionamento appropriato, bensì sono il suo prodotto diretto. I coloni europei nei continenti americano, africano e asiatico non si imbatterono per caso in popolazioni di persone indesiderate che la natura aveva gettato sul loro cammino, ma furono proprio gli europei a rendere superflue queste popolazioni attraverso l’uso di alcuni fra i princìpi più importanti e irreversibili delle loro società.

A rigore, non esistono rifiuti umani all’esterno dei confini di una società. Queste persone non sono nemici della società. Non si fa la guerra contro di loro come si fa la guerra contro un’altra società. I rifiuti umani non costituiscono un’alternativa né minacciano la società. essi costituiscono una cultura rivelatrice. Perciò sono «epurati». Una società si ripulisce di essi.

 

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Rilassatevi in agosto

Graziano Morganti

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