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I miei record paralimpici

Nel 1960, a Roma, si tenne la prima edizione dei Giochi Paralimpici riservati ad atleti con disabilità. Se ne ebbe un eco per nulla paragonabile ai Giochi della XVII Olimpiade che si erano svolti pochi giorni prima, sempre a Roma.

Avevo tredici anni e stavo sempre appiccicato ai telegiornali, di quell’evento vidi poche ma illuminati immagini. Avevo tutte le caratteristiche per partecipare ai giochi: paraplegia e braccio destro con dei perché. Decisi di cimentarmi nelle varie discipline, certo con qualche limite organizzativo e con dei contendenti che pur avendo ai piedi zoccoli e scarpe scalcagnate, alcuni addirittura a piedi nudi, godevano di una condizione psicofisica invidiabile.

Dal quel giorno e per alcuni anni presi la mania di cronometrare con orologi da polso contrabbandati dalla Svizzera da un compaesano (un tizio capace di mangiare con quattro morsi un’intera gallina bollita), con la lancetta dei secondi che purtroppo non potevi arrestare, a misurare le distanze col metro dei muratori, a segnare punti nelle gare di tiro.

Di quei record ne ho conservato una memoria precisa, purtroppo destinati a perdersi come la maggior parte delle storie del mondo se non le si mette nero su bianco.

Ho deciso di raccontarli dividendoli per singole discipline sportive e consentire così alcuni confronti con le Paralimpiadi in corso a Tokyo in questi giorni.

Handbike

Li avete visti gli atleti su quei tricicli avveniristici (tutto carbonio e manovellismi di precisione), per intenderci del tipo usato dal nostro caro Alex Zanardi?

Il mio tre ruote era di tutt’altra concezione. Lo avevo ereditato alla morte di un paraplegico geniale di Calolziocorte, che lo aveva assemblato in esemplare unico nella sua officina. Lo vedete nella foto nel giorno della mia Cresima; io al centro, a sinistra lo zio Sandro a destra Giorgio, un carissimo amico di famiglia. Era in tubi di ferro pesanti, azionato da una manovella sulla destra, con una corona e un pignone uguali di 32 denti, a scatto fisso (chi se ne intende sa cosa voglio dire).

Bene, questo veicolo che mi ha consentito per lunghi decenni di esercitare il dono più prezioso, la libertà di muovermi in autonomia, aveva un sacco di pregi e qualche limite trascurabile.

Cominciamo da questi ultimi. Per il tipo di rapporto in pianura era lento. Sullo sprint dei 100 metri che avevo misurato tirando uno spago sulla strada provinciale sterrata nel tratto del Pià della Moja – che vedete alle mie spalle nella foto – non sono mai riuscito a scendere al disotto dei 32 secondi. Inoltre, avendo il baricentro molto alto, porto ancora incise sulla pelle le insegne gloriose di innumerevoli capottamenti.

Nei percorsi misti era formidabile in salita. Salivo da casa mia, al Vaticano, sino a Forcella a trovare mio zio Pepì, con in mezzo la dura salita di Carobbio. Il premio consisteva nel mollare i freni sulla via del di ritorno e lasciare che il cappello di paglia volasse nel vento, indice di forte velocità. Solo una volta affrontai l’impresa del fondo sui 20 km., anche qui misurando il percorso di andata/ritorno sul Pià della Moja. Pedalai, o meglio mi sbracciai,  ininterrottamente dalle nove sino al tocco di mezzogiorno scandito dal campanile della chiesa di S. Paolo. A tutt’oggi lo ritengo un exploit notevole. Probabilmente chi mi vide andare avanti e indietro per una intera mattinata pensò che la polio in qualche modo mi avesse toccato il cervello. Chissà se col tempo hanno avuto modo di ricredersi sul mio conto?

Tiro con l’arco

Io, Ezio e Renzo eravamo i migliori nel tiro con l’arco, tuttavia bisogna ammettere che il livello delle prestazioni era assai deludente, non tanto per le nostre qualità atletiche quanto per i materiali scadenti dell’attrezzo.

Si andava nel bosco (per la verità eravamo sempre nei boschi) e si sceglieva con cura un ramo di nocciolo selvatico, quello che avesse il diametro più omogeneo su tutta la lunghezza e meno nodi. La freccia poteva essere un bastoncino diritto con un chiodo incastrato sulla punta, oppure una stecca d’acciaio di un vecchio ombrello. I bersagli erano i più disparati: balle di paglia compressa, uccelli, lucertole, porte di legno dei pollai e, alcune volte, anche le galline.

Su questo sport aleggiava un mistero: la freccia non ubbidiva quasi mai alla nostra volontà di tiro ma andava a casaccio dove meglio le girava. Più di una volta abbiamo corso il rischio di infilzare qualcuno che non centrava con l’obiettivo scelto. Solo dopo moti anni, quando ormai gli obiettivi della vita erano altri, ho scoperto che sulla coda della freccia bisogna mettere delle piume, o delle alette, che funzionano da timoni di direzione. Mi rimane la consolazione che quella imperizia costruttiva salvò la vita ad un gran numero di animali innocenti.

Tennis da tavolo

Giocavamo per intere estati e per anni io e il mio amico Marco su un tavolo professionale nel suo garage. Marco era/è normodotato e molto bravo, io in carrozzina gli tenevo egregiamente testa e alcune volte vincevo. Marco, se legge quanto affermo, lo può testimoniare. Seguendo gli atleti in questi giorni impegnati a Tokyo sui tavoli da ping-pong, credetemi, farei la mia porca figura.

Tiro con carabina ad aria compressa

Questa è stata la disciplina in cui eccellevo.

Non mancavo un bersaglio mobile dalla distanza di 10/15 metri, come i topi nella discarica del Corno. Spezzavo uno stecco di fiammifero infilato in una crepa del muro a dieci metri, o una lampadina molto più da lontano, che il buon Giorgio correva subito a sostituire prima che qualcuno si accorgesse. Non sapevo dire di no ai miei compagni quando mi chiedevano la carabina in prestito. E’ pur vero che negli anni ’60 del secolo scorso Monte Marenzo era prati e boschi, e per le nostre scorrerie ci sembrava stare nelle praterie dell’Oklahoma, ma avevo finito per maturare una strana sensibilità e non mi andava più che andassero a tirare agli uccelli e alle rane. Così la carabina l’appesi al chiodo sino che mia madre la diede al rottamaio del paese.

Però la sapevo usare un gran bene…

Nuoto

Nessuna predisposizione per questa disciplina.

La mia unica esperienza fu quando caddi nel fosso che correva lungo il campo di Pàol della Culumbera. Ero andato sul ciglio per vedere l’impeto dell’acqua dopo un temporale. Mi tirò fuori, io e la carrozzina, chi in quel momento passava per la strada.

Una slogatura alla spalla, una vergogna da elaborare, ma soprattutto l’assoluta mancanza di piscine, mi sconsigliarono di insistere nella pratica del nuoto.

Angelo Gandolfi

9 pensieri su “I miei record paralimpici”

  1. Confesso che leggendo questo articolo in cui rendi partecipi i lettori dei tuoi ricordi di gioventù … ho fatto delle sonore risate perchè raccontare la realtà in tono ironico è proprio una bella qualità! Grazie Angelo! Le vittorie non sono solo quelle delle Olimpiadi … ma le TANTE che hai conseguito nella vita e che valgono più delle medaglie d’oro!

  2. Io ti ho conosciuto, Angelo, che eri già adulto e ti ho sempre ammirato ed apprezzato per la tua intelligenza, cultura, grande umanità; il racconto di questi episodi della tua fanciullezza, unitamente a tue interviste che ho avuto la fortuna di ascoltare, aggiunge una profonda ammirazione per come hai sempre considerato la tua condizione fisica non un limite di chiusura, al contrario un limite da superare con tutte le forze spinto da un’immensa gioia di vivere: un grande esempio per tutti.
    Grazie Angelo !!

  3. Io credo che questa testimonianza susciti stupore in chi, come me, ha conosciuto Angelo ma non ha condiviso il suo percorso da bambino e da ragazzo; a me è sembrato davvero un romanzo da mettere su carta ampliando i concetti e situando il racconto nel contesto che abbiamo tutti dimenticato o rimosso. Io invidio i ragazzi che allora affiancavano ed aiutavano la mamma che li coinvolgeva nell’avere cura di un bambino e poi ragazzo, per quei tempi da ritenere sfortunato però mai reietto…la grandezza della mamma di Angelo, l’ho conosciuta personalmente, è stata di essere avanti per quei tempi, di non pietire interventi di pura assistenza ma di organizzare lei stessa una rete solidale intorno a questo suo ragazzo che è, perciò, inserito da sempre nella vita e tra le persone di Monte Marenzo. Credo sia sufficiente questa mia modesta testomonianza: di più potranno raccontare i suoi amici che nell’infanzia e nei tempi successivi gli sono stati accanto vivendo con lui una crescita che ancora adesso, con questo racconto, meraviglia e coinvolge.

  4. Oltre al bel ricordo per me era una cosa normale giocare con te , assieme a tutti gli altri. La mamma Caterina se andavamo verso la moia che tu non c’eri ci chiamava…..

  5. La sceneggiatura di un film!!!! Dobbiamo lavorarci…
    Scherzi a parte, bello condividere questi ricordi e insegnarci ancora una volta qualcosa.

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