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Il “cunto” di Aurora e Tindaro

PROLOGO

Domenica, 24 ottobre, vado con Valentina, Anna, Cristina, Graziano e Sergio a vedere il primo lavoro teatrale di Aurora. Aurora Spreafico, classe 1997, di Monte Marenzo.

Il luogo è davvero strano: lo spaccio della Cereria A lume di Candela a Pescarenico di Lecco una scelta dell’Associazione Fuoritraccia che da sempre ha ideato come comune denominatore della propria attività il teatro e lo spettacolo nei luoghi non teatrali, luoghi inconsueti dove sperimentare nuove forme di collaborazione e di incontro tra diversi linguaggi artistici e tra operatori, artisti e pubblico.

Tre file di sedie, 70 posti, in uno spazio dove gli spettatori (tutti con la mascherina) fanno quasi da palcoscenico a chi questa sera è in scena. Lì troviamo Annamaria, Lorenza e Tino, insomma tanti altri di Monte Marenzo, tutti a vedere  Aurora.

Me la ricordo, alcuni anni fa, ragazzina, piena di dolcezza ma con le idee ben chiare, intensa e potente già nelle prime esperienze. La ritrovo, giovane donna, attrice diplomata nel 2021 alla Scuola del Piccolo Teatro Luca Ronconi di Milano, fondata da Giorgio Strehler e oggi diretta da Carmelo Rifici.

Tindaro definirà Aurora, alla fine dei loro due monologhi, come un’”ottima attrice e drammaturga” e una “bravissima ragazza”, battuta calorosa detta nello spazio finale degli abbracci dei più intimi.

Da appassionata di teatro e da sua precoce seguace non posso che concordare. Anche Sergio (che l’ha guidata nella bellissima esperienza teatrale sulla discriminazione della donna in “Io sono la mia opera”, prodotta dalla nostra Associazione UPper), a fine spettacolo mi dice: “Aurora è cresciuta, il talento che avevamo intravisto è ora plasmato ed esaltato dalla scuola. Il gesto, il corpo, lo sguardo, la voce, la parola, il grido… ”   

Tindaro Granata, attore, drammaturgo e regista, a novembre e dicembre del ’20, ha lavorato con i ragazzi e le ragazze della Scuola del Piccolo Teatro di Milano e attraverso lo studio del “cunto” siciliano, ognuno e ognuna di loro ha messo in scena la storia delle proprie origini, le proprie radici, i propri “cunti” nella propria lingua, scrivendo e autodirigendosi nella messa in scena del proprio Antropolaroid.

Tindaro conduce in scena Aurora come in uno degli antichi rituali che saranno protagonisti del suo lavoro Antropolaroid.

Ma ora è il momento di Aurora.

EPISODIO 1

Tortellini. Una tragedia da cucina, di e con Aurora Spreafico

Lei arriva tranquilla, si prende lo spazio, il tempo si condensa. Il mio respiro è trattenuto, in attesa.

E via, comincia una danza casalinga, una volta avremmo detto un “balletto”, su un famoso refrain anni ’80 (o ’90? Non ricordo bene, ma so che lo ballavamo anche noi, lo ascoltavamo, era uno di quei tormentoni lì, quelli che poi non te li dimentichi più ma il titolo, booooooh……).

E poi: prologo, episodi, epilogo. Come le tragedie. Ma questa è più una tragicommedia.

Vita di provincia, in una casa dell’alta Brianza magari. Madre, padre, figlia, una famiglia normale, qualunque. Non la sua, no, ci viene precisato: una qualunque. La nostra, forse.

Lo scheletro drammaturgico e il lavoro dell’attore vengono evocati, anzi chiaramente mostrati nel loro farsi, ancora non perfezionato, nel senso latino del non-finito.

Sono frammenti di dialogo, a voci alterne, differenziate con cura ma senza enfasi nell’interpretazione di Aurora, quelli che vengono detti.

Madre-figlia; figlia-,madre; padre-figlia.

L’alternanza, secca ed essenziale, a tratti cruda, di scene quotidiane di questo interno familiare dei giorni nostri, fa crescere il ritmo e l’intensità delle emozioni. Gli affetti sono quelli di ognuno di noi, i conflitti sono quelli classici, i dilemmi quelli universali.

Le tonalità umorali variano dall’affettuoso con brio al provocatorio con furia tardo-adolescenziale, dal ruvido al dolcissimo, con quel “ragnetto sulle ginocchia” che ricorda i gesti di cura materni dell’infanzia, gesti che non si vogliono lasciare, fino alla dissoluzione (o presunta tale) delle relazioni familiari.

Aurora è intensa, ma mai sopra le righe, anche quando i toni drammatici si fanno più forti. Sa commuovere. E sa suggerire, evocare emozioni profonde, nascoste.

È per questo che mi lascia senza fiato. Lo scavo dell’attore-autore ha colpito nel segno.

Certo, è solo un frammento, una parte del lavoro, un po’ di farina lanciata in aria.

Ma, veniamo a sapere con piacere, a questo episodio seguirà lo spettacolo completo.

Alla fine, più di tutte, una domanda riecheggia e rimane aperta: “Può un tradimento essere delicato?”.

Attenzione a rispondersi. Ci sono effetti collaterali.

Ci hai dato un bel pugno allo stomaco, un bello scossone, Aurora.

E ti sei presa i meritati applausi e il pieno di calore delle oltre settanta persone presenti.

2° EPISODIO

ANTROPOLAROID – IL DECENNALE di e con Tindaro Granata

Tindaro Granata è attore e autore ormai di lungo corso, scoperto, come ci racconta lui stesso, da Massimo Ranieri, figlio di un sogno, quello di andare a Roma, a fare del cinema, che dalla Sicilia nativa lo ha condotto appunto fino a Roma. Lì ha fatto tanti lavori, anche il cameriere (e ci racconterà anche questo con il colore e il calore che metterà in tutto i suoi “cunti”) e alla fine, proprio con questo spettacolo troverà il meritato riconoscimento.

Il suo curriculum è lungo e non sto qui a raccontarlo tutto. Si trova facilmente in rete.

Ma una cosa ci tiene a dirla e io a riportarla. Il suo primo lavoro era il contadino. Il lavoro del “fare” per eccellenza, del creare, del raccogliere e del portare agli altri.

Un lavoro che forse, ma magari è solo la mia fantasia che galoppa, ha portato nel suo lavoro di attore, drammaturgo, autore.

Si vede subito, del resto, che a fare è abituato. Dopo il monologo di Aurora spazza lui per terra col mocio. È rimasta della farina sul pavimento, poi lui lì sopra ci camminerà, ci correrà, ci ballerà.

Non vuole mica scivolare!

Poi inizia il ”cunto”, un perfetto impasto di storie raccontate con una lingua antica, miscuglio di dialetto siciliano, parlate, altre lingue (francese, spagnolo e altre lingue dei vari dominatori che si succederanno in Sicilia).  Il dialetto è cambiato adesso come sono cambiate le situazioni, le abitudini sociali, le persone. E, è ovvio, anche le parole. Sono interessanti i paralleli e i confronti di Tindaro che inframmezzano e precisano, col parlato, il recitato. A spiegare meglio una situazione o appunto la faccenda di questa evoluzione del dialetto.

E come sono struggenti i racconti della bisnonna Concetta, con la quale Tindaro vivrà dai 6 anni un periodo della sua vita, come sono ancestrali i rituali che lei mette in atto con le parole e con i gesti, per esempio quando in punto di morte ricama, per 48 ore, il suo corredo per non giungere impreparata all’appuntamento con lo sposo (e con la suocera, che vuole il corredo finito!).

Oppure quando lo benedice, alla nascita o quando racconta le sue storie che poi sono anche quelle degli altri vecchi del paese, tutti tra i 70 e i 100 per intenderci. Una Sicilia ancestrale ancora pesantemente condizionata dallo sguardo degli altri, dei vicini e soprattutto della Mafia che domina al tempo ancora incontrastata andando anche a pescare tra chi, non per forza disonesto, ha solo bisogno di dare da mangiare ai numerosi figli.

E come tutto diventa drammatico e oscuro nel racconto della “notte nivura”, quando non è la parola a spiegare, ma il parossismo dei gesti e delle grida…   

Ma si può comunque scegliere diversamente e anche di questo dice lo spettacolo.

Poi c’è la zia Peppina, con qualche problemino a una gamba, che mica si lascia scomporre però e si prende la briga dell’educazione sentimentale delle ragazze al ballo, con tutto il gioco di sguardi, mosse e mossette, rilanci e rinculi (nel vero senso della parola) che ne deriva.

E col valzer ci sa fare la Peppina, non perde un tempo e gira, gira, gira…un, due, tre, un due, tre….

Poi ci sono tutti gli altri componenti di questa strampalata famiglia, il nonno, la madre, il padre, gli affini, gli amici al bar.

Li possiamo considerare figure simboliche, evocatrici di una cultura e di una regione d’Italia ben precisa, la Sicilia, e insieme parti di un affresco dove il dato antropologico non si può separare da quello della memoria individuale, dall’affetto profondo che lega Tindaro alla sua famiglia, dai legami con la sua terra. Terra dalla quale anche staccarsi, per poi tornare a “casa”.

Il passaggio da un’intonazione e un timbro della voce all’altro (dal bambino di 5 anni all’adulto furioso in pochi secondi), le variazioni anche minime della postura del corpo, un dito che trascina verso il basso un occhio dilatandolo e deformandolo, il sedere appena sporto all’infuori, una gamma incredibile di sottili variazioni di espressione del viso contribuiscono alla creazione dei moltissimi personaggi-persone che animano la vita e il racconto di Tindaro.

C’è anche il bisogno di uscire dallo spazio racchiuso dalle sedie del pubblico e Tindaro recita negli spazi attigui alla sala della Cereria, o addirittura fuori, perché il cielo evocato nel “cunto” lo possa ascoltare.    

È l’arte dell’attore certo, ma è sempre stupefacente come una/uno riesca a farlo e così bene.

Antropolaroid. La Polaroid di una vita!

EPILOGO

Ci alziamo tutti in piedi ad applaudire Tindaro e Aurora e poi ce ne andiamo più leggeri nel crepuscolo della sera ottobrina, ci sentiamo pieni e finalmente ancora vivi.

Il teatro è tornato. Evviva il teatro!

P.S. Aurora! Non scordarti di noi, quando tutti i tortellini saranno pronti!

Monica Costa

Un pensiero su “Il “cunto” di Aurora e Tindaro”

  1. Ricostruzione emotiva, affettiva e intellettiva perfetta nei rimandi che questo articolo offre a chi ha partecipato ai due momenti teatrali così magici e pieni di energia vitale.
    Grazie Monica!
    Grazie Aurora! Continua a stupirci e a portarci nelle pieghe nascoste dell’esistere.
    Grazie Tindaro! Un piacere conoscerti nello svelamento di te stesso in multiple e colorate identità, guida alle nostre, magari ancora in ombra.
    Valentina C.

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