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Era di maggio

Anche in questo maggio morente le bόne non sono tornate.

E’ uno dei segni più evidenti che stiamo parlando di un aspetto del passato, del quale si può avere solo memoria. Come sostiene Carlo Rovelli, splendido fisico teorico, gli eventi irreversibili sono il passato. Dopo aver inutilmente aspettato il ritorno delle bόne, penso proprio che questo dato sia irreversibile, come le lucciole per Pasolini o il ricordo delle madeleine per Proust, e rimane solo come orma struggente della nostra fanciullezza.

Quanto le abbiamo amate le bόne e con altrettanto impeto massacrate!

Nelle sere del mese di maggio, nelle siepi di biancospino che costeggiavano le strade bianche, cominciavano a sciamare all’imbrunire con un volo greve, rumoroso, facili prede della nostra agilità giovane.

E lì cominciava il divertimento. Se ne raccoglievano grandi quantità per gli svariati usi. Si liberavano nei capelli lunghi delle femmine per ridere dei loro strilli, o si legavano per una zampa con un filo di refe sottile e farle gareggiare in altezza. Ma il supplizio più atroce era vederle mulinare sino allo sfinimento, assicurate ad un bastoncino con una spina infilata nella zampa.

Penso che non eravamo particolarmente cattivi o perversi, piuttosto appartenevamo al pari delle altre creature ad un mondo naturale ancora impregnato da istinti che obbedivano ad una impronta arcaica: i topi rubacchiavano nelle madie, i gatti mangiavano i topi, i cani appena potevano sbranavano i gatti, le galline razzolavano nelle aie e beccavano le bόne. Noi si apparteneva a questa armonia dove – e non sembri un paradosso – non si era ancora smarrita l’innocenza che ci assolveva.

C’era inoltre una ragion pratica a nostra scusante. Questi insetti erano nostri competitors perché si nutrivano dei fiori delle piante da frutto, non lasciando andare a maturazione le ciliegie, le pere, le pesche, bottino irrinunciabile delle scorrerie notturne di noi ragazzi nei campi del vicino. I vecchi vedevano di buon occhio lo sterminio di questo insetto così dannoso per il coltivo.

Ora ne sento la mancanza, sento come una perdita non vedere il volo goffo di queste figlie della terra grassa. Nel crepuscolo del mese di maggio i bimbi, forse, amerebbero ancora inseguirle, magari con qualche consiglio per un trattamento meno cruento.

Il rammarico è accentuato vedendo come è andata a finire: le bόne non sono più tornate, ma questo non ha salvato i frutteti che facevano di Monte Marenzo un giardino delle delizie. Sparite le siepi di biancospino e rovo selvatico, microcosmo per una miriade di viventi, ora, dietro le cancellate di ferro che inchiavardano le proprietà, corrono le odiose barriere di lauroceraso, si stendono tappeti verdi dove ogni stelo è uguale all’altro e il diverso è rabbiosamente sradicato, dove svettano abeti gravidi di processionarie e proliferano piante d’arredo sofisticate.

Angelo Gandolfi

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