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La cucina di Caterina

Quando le brume del mattino calavano a terra e la galaverna trasformava le foglie d’erba in cristalli fragilissimi, quando l’acqua ghiacciava dentro i catini nelle stamberghe di Monte Marenzo, di prima mattina alcuni anziani portavano le loro ossa infreddolite nella cucina di Caterina. Era una cucina povera ma nella stufa economica brasavano sempre un ciocco di rovere e i resti di ovuli di coke trovati rovistando nelle ceneri buttate dalla scuola elementare. La fiamma si avviava di buon’ora con i tapèi che due dei figli di Caterina raccoglievano nei boschi.
Ognuno arrivava portando la propria scatoletta con le fiale prescritte dal medico. Per tutti era quasi sempre lo stesso farmaco perché la malattia era comune: la miseria. Caterina non solo praticava le iniezioni, offriva un bicchiere di vino e controllava che la stufa restasse ben calda. Da Caterina si stava bene, la permanenza durava quasi tutta mattina e restavano sempre infagottati in giacche consunte da mille temperie. La siringa di vetro era una sola, come l’ago, e tra una puntura e l’altra venivano bolliti per bene in un minuscolo contenitore di alluminio; posso giurarvi che non ci fu mai un solo caso di suppurazione. Col sottofondo del borbottio dell’acqua c’era tempo per delle parlate che si ripetevano più o meno uguali, mattina dopo mattina, nessuno aveva fretta di ritornare a casa, nella stamberga col ghiaccio nei catini e le ombre di una solitudine non ricercata.
Nella cucina le persone sapevano di poter sciogliere parole il più delle volte inascoltate, o stare in silenzio. Caterina rispettava il tempo fermo che si creava, interveniva con misura solo quando sentiva di poter lenire qualche ferita manifestata. Ognuno portava il suo carico che adagiava sulle spalle di Caterina per condividerne il peso.
Alcune presenze furono assidue per anni. Di Chechèto solo Dio sa come riuscisse a mettere insieme pranzo e cena, ma il gusto di dire stupidate e licenziosità sulla gente di Monte Marenzo lo metteva sempre di buonumore. Questo comportamento nella cucina di Caterina non era tollerato e lui si guardava bene dal lasciarsi andare in quel sacro rifugio.
Rico del Bòc, ogni ruga una disgrazia, abbandonato dalla moglie (all’epoca cosa rara) aveva visto il proprio unico figlio ancora infante strappato dalle sue braccia dall’angelo della morte. Famiglio in casa Corazza non smetteva mai di raccontare episodi di generosità e rettitudine del sciùr padrù. E Caterina non smetteva mai di ricordagli che il sciùr padrù, proprietario di mezzo Monte Marenzo, aveva voluto essere pagato sino all’ultima lira prima di portarle la legna per la stufa nel freddissimo inverno del ’56, nonostante fosse rimasta vedova da alcuni mesi con tre figli minori (uno infermo).
Vittorio, l’amato fratello di Caterina, era la persona più mite del mondo. Se ne stava rincantucciato a ridosso della stufa, l’alfa tra le dita ingiallite e il suo mezzo bicchiere di vino. Era un taciturno con un viso sereno, eppure in quelle mattinate era l’unico che avrebbe potuto raccontare accadimenti che la maggioranza degli umani non avrebbe mai potuto neanche immaginare. Vittorio si era fatto otto anni di una guerra non sua senza tornare in famiglia. Di quel tempo divoratore di milioni di esistenze non parlò mai. Nessuno mai gli chiese di quel vuoto, forse per non risvegliare fantasmi che si volevano seppellire sotto il rombante boom post bellico, oppure perché a Vittorio stesso non gli riusciva trovare le parole adeguate a descrivere l’indicibile, l’insopportabile, senza essere guardato con scetticismo. Solo una volta si lasciò sfuggire un ricordo, quasi un sogno dell’ultimo giorno di prigionia in Germania.

  • Denàč de notre se fèrma ü cararmàt con la stèla rósa. Salta gió ü suldà col casco. Al tira gió ol casco e söla schena ghé tracà gió öna trèscia biunda. L’éra öna dòna con du öč célèsč de la madóna. O capì che mé ‘ndaa a cà.

Gli occhi gli si inumidiscono e in quelle gocce c’è tutto quanto Vittorio ci ha lasciato di quegli otto anni.
In tarda mattinata arrivava la Pina in lacrime, portava le camice bianche del figlio perché proprio non le riusciva di stirarle col ferro a carbonella. Verso mezzogiorno la Dele apriva la porta e di botto: ­ Caterina, Caterina, stó mal, gó ü grop al stomec. Ghet ü cynarì de dàmm?
Di domenica pomeriggio Maria di Gài, una vecchina dalla voce tremante avvolta in uno scialle nero, portava il bollettino parrocchiale sul quale ogni tanto trapelava del livore nei confronti dei miscredenti. Caterina non frequentava la chiesa e votava comunista, tuttavia nella sua cucina nessun credo si sentiva a disagio e ad aspettare la Maria c’era sempre un bicchiere di vino. Caterina era tutt’altro che miscredente, tuttavia non sentì mai il bisogno di esternare in cosa consistesse il dialogo intimo che intratteneva con Dio e Padre Pio. Una fede incrollabile tutta interiore, mentre l’unica preghiera che recitava a voce alta era: – Fàga mia del màl ai persone, ma ötele.
Caterina aveva un profondo rispetto dei simboli religiosi, mai avrebbe gettato una immaginetta seppur consunta nella pattumiera, però se doveva scegliere tra un santo simulacro del marmo più nobile e la carne non aveva dubbi. Una mattina del 1972 nella cucina si discuteva dell’efferato gesto di László Tóth che in San Pietro aveva preso a martellate la Pietà di Michelangelo. Caterina sentenziò: – L’era pèsc sé el ghé daa i martelade a öna mama de famèa.
Non di soli vegliardi era animata la cucina di Caterina. La data è precisa, settembre 1960. Su un mobile scricchiolante venne depositato con grande cura un meraviglioso Mivar di 24 pollici e alle 17 esatte di quasi tutti i giorni si apriva la sala di spettacolo. I ragazzi della frazione si assestavano sulle sedie impagliate e gli occhi si dilatavano a dismisura sulle avventure di Rin Tin Tin, di Jim della giungla, sulla calzamaglia di Mago Zurlì. Nulla fu più come prima, i bimbi cambiarono il modo di giocare e non fecero più gli stessi sogni.
Nelle sue mani Caterina aveva un dono raro che tuttavia non gli procurò una sola lira. Il passa parola diffuse la sua fama di guaritrice. La cucina divenne la stazione d’arrivo per polsi, spalle, caviglie slogate, schiene stirate. Caterina ci metteva letteralmente mano in modo del tutto originale: nessun amuleto apotropaico, nessuna segnatura o simbolismo religioso, nessun rito giaculatorio. Solo un leggero strato di borotalco e le mani cominciavano ad accarezzare leggere la parte dolente e ogni tanto si soffermavano per alcuni secondi sul punto critico. Se l’articolazione aveva una piccola frattura i polpastrelli misteriosamente l’avvertiva e l‘indicazione era di rivolgersi all’ospedale, altrimenti, a detta di tutti i pazienti, quelle mani cominciavano ad emanare un’onda calda, benefica, e il groppo pulsante del male cominciava lentamente a sciogliersi, ad allontanarsi.
Nella cucina entravano storti e col viso smorfiato dal dolore, uscivano dritti e con un’espressione di ritrovata beatitudine.

  • Caterina, cosa devo per il disturbo?
  • Negót, negó Anzi, le verso un cynarino?

I miracolati completamente rapiti da quella morbida serenità, adocchiata la scarna vetrinetta dei liquori, osavano: – Se proprio insiste preferisco un cognachino.
Questo accadeva nella cucina di Caterina sino alla metà degli anni 70 del secolo scorso. Questa era Caterina, mia madre.

Angelo Gandolfi

10 pensieri su “La cucina di Caterina”

  1. Ho un ricordo indelebile e vivido di Caterina, della sua gentilezza, della sua disponibilità, della sua pazienza e porto nel cuore un rispetto profondo per lei. Grazie Angelo per aver condiviso e risvegliato un ricordo a me veramente tanto caro . Un caro saluto

  2. Grande Angelo,hai fatto una fotografia perfetta di tua mamma,e del momento di quei tempi, io ho avuto la fortuna ci conoscere tua mamma, quando sievenuti ad abitare al “Mangil” noi allora ragazzi, abbiamo incominciato a frequentare la tua casa, sempre ricevuti da Caterina,con un grande sorriso, e mi ricordo che la sua voce era sempre gentile, “ona dona de una olta” quante volte io,e i ragazzi della mia età, siamo stati in
    Casa tua,per incamminarci su una strada, piena di valori e soddisfazioni, e per fortuna,la strada è ancora da percorrere, grazie Angelo,per avere riportato allora mente, una persona veramente speciale.
    Gerry

  3. Grazie Angelo per Quello che hai scritto.Non aggiungo nessun commento.
    Grazie SIGNORA CATERINA per tutti i Négot che hai detto

  4. Io non ho conosciuto tua mamma, ma dal tuo racconto bellissimo ho capito che i suoi geni non sono andati persi, sei suo figlio e lo hai dimostrato e lo stai dimostrando tutt’ora. Non è più una cucina l’ ambiente principale di quello che potrebbe essere la tua storia di vita, ma il paese – Monte Marenzo – e non solo. Grazie Angelo

  5. Come gli altri, dall’album di storie di Angelo, un filmato di vita vissuta, così quotidiana e, insieme, così speciale.
    Qui si parla di dono e di doni, di sapienze femminili e di scelte non scontate.
    È bello che questa ‘fiaba magica’ si svolga in una cucina, presso il ‘focolare’: termine che, per molti secoli, ha identificato – perfino nelle indagini demografiche – il cuore del nucleo familiare.
    Impossibile non pensare, per contrasto, alle migliaia di focolari oggi distrutti dalle assurde ragioni di guerra!
    Intanto, grazie di questa storia, Buon Natale e buoni doni a tutti noi qui in terra…

  6. Una bella storia di paese:
    Noi siamo venuti a Monte Marenzo la prima volta nelle vacanze Pasquali del 1972 ed ero in attesa del primo figlio.
    E’ stato un AMORE a prima vista, il paesaggio, il verde, le colline, la valle..
    Siamo arrivati poi nel 1977 ad abitare e nacque un altro figlio e poi un altro.
    Ho nel cuore parecchie persone che non ci sono più, da ultima la sig. Francesca Milesi in Fumagalli.

  7. “La cucina di Caterina” è una fiaba.
    Questa fiaba racconta di una donna speciale, di un tempo speciale in un epoca non molto lontana dove gli uomini e le donne lottavano ogni giorno per i bisogni primari. Questo minimo comune denominatore stava sotto ad ogni azione, ogni gesto ad ogni parola “…. perché la malattia era comune: la miseria”.
    Caterina aveva aperto la sua umile casa per alleviare il corpo e lo spirito da questa oppressione.
    Si andava da Caterina per un’iniezione, un parere, per una parlata anche per stare al caldo della stufa sempre accesa e “…ognuno portava il suo carico che adagiava sulle spalle di Caterina per condividerne il peso ….”. oppure per “… Caterina, Caterina, stó mal, gó ü grop al stomec. Ghet ü cynarì de dàmm?…”, incredibile!
    Caro Angelo non mi dilungherò sulle tantissime emozioni che mi hanno pervaso leggendo il tuo splendido racconto.
    Ogni parola, ogni frase mi hanno riportato in quel tempo che ho avuto la fortuna di vivere anche se per poco, sopra a tutto una grande nostalgia mi ha assalito ed è la nostalgia dello stupore.
    Lo stupore innocente di chi aveva poco e si emozionava davanti alla prima televisione, “….. ..i ragazzi della frazione si assestavano sulle sedie impagliate e gli occhi si dilatavano a dismisura……”
    Meraviglioso racconto, letto tutto d’un fiato, ma l’ultima frase mi ha tolto veramente il fiato:
    “…. questo accadeva nella cucina di Caterina sino alla metà degli anni 70 del secolo scorso. Questa era Caterina, mia madre.”
    Non potevi chiudere meglio questa fiaba, questa ode a tua madre.
    Grazie Angelo
    Carloi

  8. Concordo. Racconto straordinario. Hai fatto rivivere atmosfere e persone del vostro passato. Ci sono anche altri commenti sulla pagina facebook che ricordano con affetto tua mamma.

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